giovedì 12 settembre 2013

LA DIABOLICA (P)OSSESSIONE

L'Apocalisse è dietro l'angolo, c'ho le prove. Niente catastrofi meteorologiche, né piogge di animali e/o insetti, per questa categoria attendiamo con ansia i primi servizi dei tg sulla brusca ondata di freddo, che un settembre così autunnale non lo si vedeva più dalla battaglia delle Termopili, epoca da cui non vedevamo  più neppure una faccia sepolcrale quanto quella del giornalista che annuncia la notizia. No, io parlo di ben altri fenomeni,
non contemplati nella Bibbia, probabilmente perché né i Profeti, né i Santi e manco gli Evangelisti ,in aiuto da casa con la telefonata, potevano immaginare il dramma che si consuma nelle multisala.
Io invece l'ho vissuto in pieno, mi ci sono proprio voluta immergere, andando al cinema di mercoledì, quando costa meno. L'esordio è stato felice, con il parcheggio del The Space Cinema (già Medusa) vuoto per metà. Un limpido esempio di comunicazione ingannevole, perché o tutti gli utenti della multisala abitano nei dintorni e quindi si muovono a piedi, oppure la gente ha ripreso a viaggiare in sette in macchina, come negli anni '80, dato che il rapporto parcheggiosemideserto-filasemieternaallabiglietteria era davvero inspiegabile. L'attesa, si sa, è una palla, ma è sempre fonte di apprendimento, in questo caso più che altro di riscoperta di un sentimento: quel sentimento di profondo stupore e totale impreparazione che assale quanti, dopo avere ciondolato per quindici minuti in fila davanti al baracchino del bigliettaio, con ben cinque tabelloni luminosi che indicano film, sale, orari, numeri di posti ancora disponibili e numero di pop corn sfornati in tempo reale, si accorgono di colpo che tocca proprio a loro. Il paziente dipendente della multisala li fissa ed è ammirevole la forza di volontà con cui riesce ad evitare di prendere la testa di ogni singolo avventore e sbatterla ritmicamente sulla scrivania, e ciò  nonostante sia chiaro che riceve pure uno stipendio troppo basso, per lo meno in rapporto all'imbarazzante maglietta fluorescente e alle cuffie da centralinista spaziale che è costretto ad indossare. 
Lo Stupito di turno, come è nella sua natura e nel suo karma, realizza di botto che deve comprare un biglietto e che, di conseguenza, deve scegliere un film. Ed ecco lo smarrimento nei suoi occhi, come se al cinema ci fosse venuto non per sua volontà ma in seguito ad un rapimento da parte degli alieni, o per un grave caso di sonnambulismo, con risveglio davanti alla biglietteria e conseguente shock perché il poverino, a cui scappa la pipì, stava sognando di essere al bagno e non riesce quindi a collegare il Centralinista Spaziale davanti a lui con l'immagine amichevole ed agognata del water. Fatto sta che lo Stupito a quel punto si guarda freneticamente in giro in cerca di suggerimenti e, non ricevendone, afferra lo smart phone e chiama l'amico/amica/fidanzata/donnacheglistiraacasa per sapere cosa lei/lui vorrebbe vedere se gli fosse successo di trovarsi teletrasportato al cinema. Seguono insulti telefonici, a cui fanno eco gli insulti di quelli ancora in fila, che uniti in un unico mantra producono il magico effetto noto come "calcio nel deretano", che sospinge finalmente oltre lo Stupito e consente a me di arrivare al Centralinista Spaziale della multisala.
Ora, ovvio che non mi sono fatta cogliere impreparata: ho scelto meticolosamente il film tra la marea di film mediocri della stagione e, visto il livello generale, in attesa di ridere sulla scucchia di Clooney che sporge dalla tuta spaziale, ho puntato su un horror. Mica uno qualunque, ho deciso di vedere "L'Evocazione", per motivi serissimi: 1) è tratto da una storia vera, il che potrebbe anche significare che effettivamente la chiesa che si scorge nella penultima inquadratura è davvero una chiesa, ma fa comunque sempre più paura del solito cimitero di indiani in cui tutti continuano a seppellire i parenti fino all'ottavo grado e gli animali domestici, incluso il pesce rosso, meravigliandosi se ogni volta risorgono posseduti; 2) è l'unico film che ovunque, tranne che al The Space, veniva dato esclusivamente in seconda serata, perché vietato ai minori di 14 anni; 3) la protagonista è Vera Farmiga, una che ha una gloriosa tradizione familiare di filmdappaura, in quanto sorella maggiore di Taissa Farmiga, protagonista della prima stagione di American Horror Story Murder House, un telefilm che è riuscito a togliermi il sonno per mesi solo con la sigla iniziale; 4) ne parlava Vanity Fair. E siccome non lascio niente al caso, mi ero precedentemente procurata un accompagnatore adeguato alla serata, un bel giovane dalla faccia così gioiosa da avergli meritato il soprannome de L'Inquisitore Spagnolo, il quale, fin dalle pubblicità dell'Audi, ha cominciato a fissare minaccioso le vicine di poltrona perché parlavano. Mi è parso superfluo dirgli che gli spot delle auto, sebbene dotati di trame avvincenti, non hanno di solito dialoghi indimenticabili.
Poi tutto è precipitato. Il film è alle prime immagini, quando ecco entrare una banda di bambucci forse sedicenni. Lunghi, secchi e inutilmente rumorosi come tutti gli adolescenti, incapaci di interpretare il biglietto del cinema e l'assegnazione dei posti come tutti gli uomini di mia conoscenza (a parte l'Inquisitore Spagnolo, abituato com'è a selezionare il livello di trazione della ruota della tortura, figuriamoci se si fa mettere in crisi dall'abbinamento letteradellafila-numerodellapoltrona). I giovani beoti bivaccano per un po' in piedi, accendendo tutti gli smartphone in loro possesso e commentando gioiosi ogni cosa con cori da stadio. Raccolto il giusto tributo di insulti dalla platea, optano alla fine per le poltrone davanti a quelle occupate da me e dal mio oscuro accompagnatore. Messe al sicuro (crede lui) le chiappe, il bambuccio di fronte a me attacca a parlare come se fosse al bar e si becca subito un severo "shhhhh" sibilato dall'Inquisitore Spagnolo. Mi nascono i primi dubbi, sibila troppo bene e da Harry Potter in poi tutti sanno che l'eccessiva familiarità con i rettili non è mai un buon segno. L'incauto minore ignora l'avvertimento, nonostante il  tema del film fosse pure profetico, e prosegue nella chiacchierata. L'Inquisitore Spagnolo, facendo proprio il comune sentire della sala, ritiene di applicare i teneri insegnamenti di Tata Lucia e appioppa un calcio allo schienale della sedia del bambuccio, ma con una tale delicatezza che il bambino balza in avanti e sfiora con la fronte il sedile successivo. Il tenero virgulto si gira contrariato verso l'Inquisitore, ne incrocia l'amichevole sguardo, sbianca, si alza, afferra l'amico per il braccio e scompare con tutta la compagnia nelle ultime file. Questo strano accompagnatore inizia a piacermi, il che conferma la teoria di Guerre Stellari: il lato oscuro affascina.
Il film prosegue, siamo  alle caratteristiche scene di estremo benessere-divertimento-amore profondo tra i protagonisti, scene che di solito preludono allo sfracello totale e consentono il gioco del toto-pirla, un giro di scommesse su chi sarà il primo  a dire "Ho sentito un rumore, vado a controllare la cantina buia, enorme e con strette scalette ripide in cui nessuno mette piede dal 1860 e torno subito", per poi sparire e riapparire disassemblato in otto comodi kit sanguinolenti. La rilassante assurdità di queste scene viene interrotta dall'irruzione in sala di un'armata di bambucce sedicenni, stangone, rumorose ed ilari come solo le donne sanno essere a quell'età. Dopo un acceso dibattito e almeno due referendum su quali posti preferire, le bambucce si sparpagliano, così possono fare più danni (cit.), finendo sedute parte di fianco a me e parte nella fila davanti. Aprono le borse (enormi, le donne sono donne a tutte le età) e cominciano ad estrarre confezioni famiglia di patatine, lattine di Coca Cola, caramelle gommose in confezioni rumorosissime, telefoni grandi come un pc, piastre per capelli, lime per unghie. E parlano, masticando le patatine con sonora soddisfazione. 
Mi volto allarmata e vedo luccicare nel buio gli occhi scuri dell'Inquisitore, fissi sulle bambucce. Sarà che il film parlava di entità malvagie, ma potrei quasi giurare di avervi visto un luccichio rossastro, tipo brace fumante. Mentre mi chiedo se sia più saggio cercare di ostacolare l'eccidio che sta chiaramente per consumarsi o saltare in braccio al vicino della fila dietro per evitare di essere travolta dalla furia omicida, succede l'imprevedibile: dalle file avanti inizia a salire un vociare che si fa sempre più alto ed animato. Ciò che sembrava l'ennesima chiacchierata tra adolescenti si rivela per quel che è, una rissa tra le bambucce in armata e una bambuccia singola, che discutono di bibite rovesciate e poltrone bagnate. Dopo alcuni epiteti amichevoli, si scopre che la bambuccia solitaria non è affatto tale, bensì accompagnata da mamma e papà. Quest'ultimo tenta un maschio intervento, che gli vale una valanga di insulti e risate dall'armata femminile, il che determina la mamma a prendere posizione. Si gira inviperita e, tra un fantasma di bambino morto ammazzato e un demone butterato, esclama "Lei (la figlia) ha sedici anni, ma io no, e se non la pianti ti rivolto la faccia con una sberla". Fine della lite.
Alquanto sbigottita, essendo la prima rissa da multisala a cui assisto, riprendo a seguire la trama del film. Sullo schermo i sagaci protagonisti iniziano a chiedersi con sguardo stolido se sia stata poi una buona idea trasferirsi a vivere in un luogo raggiungibile soltanto con il paracadute, dotato di un bel lago da pronto annegamento e di una casa che, pur avendo tre piani, sei stanze, due bagni e una cantina occultata, è costata un po' meno di un cheeseburger. E mentre i primi brividi mi scendono lungo la schiena (morte ai cinema e alla loro mania di aria condizionata anche a dicembre), dalla parte opposta della sala scoppia un'altra rissa. Questa volta a sedarla è una voce maschile, che urla un "basta" per cui tremano i sedili fino alla fila N, seguito da minacce di morte alquanto credibili, parolacce circostanziate e una bella (si fa per dire) bestemmia. Sulla sala cala, finalmente, il silenzio più completo. Sarà stato il disappunto dell'offesa per i credenti o forse un prudente cattolicesimo di ritorno nei più, spontaneamente generato da scene su scene di eteree mani bianche che spuntano da armadi neri e creature demoniache, acquattate dietro le porte nel buio in attesa delle tre di notte per venire a tirarti i piedi nel letto; fatto sta che da lì in poi ho potuto seguire il film. Cioè, non proprio seguire, più che altro intuire da dietro la borsa dove mi ero nascosta.
Ribadisco, in tanti anni di onorata carriera da cinepatica, mai mi era capitato un clima così dichiaratamente ostile tra gli spettatori. Certo, c'è sempre il vicino che commenta ogni inquadratura, che ti racconta la prossima scena perché il film l'ha già visto, che si chiede, a voce alta e durante la scena più toccante di Schindler's List, se i capelli di Liam Neeson sono tinti , che mastica i pop corn più duri e scoppiettanti della storia, aiutandosi a deglutire con ettolitri di Coca Cola risucchiata fino all'ultima goccia ed esalata in silenti ruttini discreti. Ma qui siamo parecchio oltre, si è perso tutto il piacere di condividere con dei perfetti sconosciuti la comune emozione di saltare per un paio d'ore dentro un'altra storia, di sentirsi un po' complici dell'ignoto vicino di poltrona, vuoi anche per merito del ruttino, che è rito molto intimo. Si sono perse anche parecchie tacche in tema di civiltà, educazione e gentilezza e ne sono sorpresa, perché il declino è stato rapido, per lo meno se penso alla mia precedente incursione in un cinema.
Non sono un'aruspice, ma gli auspici per il futuro dell'umanità mica mi paiono un granché, da qui il timore dell'imminente fine del mondo. Dubbio che si deve in larga parte anche all'Inquisitore Spagnolo. Sì, perché il film, che per gran parte del tempo è esagerato come una telenovela brasiliana ed ugualmente dotato di comicità involontaria, da un certo punto in poi prende ritmo e fa sinceramente paura. Ma una di quelle paure per cui non ti basta più non guardare lo schermo, ti dà fastidio pure il sonoro e la gambe ballonzolano da sole perché vorresti lasciare la sala. In quella parte di film ho osato riemergere dalla borsa per guardarmi in giro: c'era chi aveva le mani sulla faccia, chi era avvinghiato/a al vicino/a, perfino una delle bambucce dell'armata aveva smesso di biascicare cibo spazzatura per tentare di fondersi con la tappezzeria della poltrona. Allora mi sono girata verso l'Inquisitore, mi sono detta: chissà com'è quando ha paura. Il giovane dall'oscuro sguardo sedeva perfettamente eretto, gambe composte, un braccio elegantemente adagiato sul bracciolo, l'altro piegato verso il viso, dove indice e pollice gli incorniciavano il mento, nella tipica posa dello psicoterapeuta da telefilm. Non un fremito, non un occhio sbarrato, le palpebre talmente rilassate che le lunghe ciglia quasi gli sfioravano le guance. Accortosi del mio sguardo, si è girato e mi ha sorriso perfettamente cortese, come se fossimo stati ad una cena di beneficenza invece che nel bel mezzo di urla e carni lacerate. Insomma, l'Inquisitore Spagnolo si è dimostrato non soggetto ad alcuna umana preoccupazione, minaccioso con i disturbatori, dotato di occhi profondamente neri e di una barba che fa tanto Faust, estremamente educato. Così educato che, avendogli io inavvertitamente ghermito il braccio per una di quelle scene in cui battevo i piedi per la paura, è riuscito a sostenermi l'arto, da vero gentleman, mentre appoggiava la mano libera, leggera ma decisa, sul mio ginocchio. Nessuna avance,  bensì un invito a smetterla di fare tip tap dentro la sala di un cinema. Un invito che non ammetteva replica, come pure la lamentela che gli ho visto successivamente presentare ad uno smarrito commesso di nota catena di pseudo fast food, colpevole di avergli sottoposto una tovaglietta reclamizzante un'offerta, a suo dire, estremamente ingannevole. Se non è un uomo da fine del mondo questo.

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